Denis Villeneuve ce l’ha fatta. Non solo ha portato sullo schermo il libro di Frank Herbert, impresa di per se complicata come ben sanno sia Jodorowsky che Lynch, ma l’ha fatto senza piegare la sua visione artistica ad altre esigenze, partorendo una pellicola destinata a trovare un proprio posto tra i giganti del cinema sci-fi. Il nome di Villeneuve, insomma, è entrato nella storia di Dune in maniera probabilmente indelebile al fianco di quelli di Herbert padre e figlio. 

L’utilizzo chirurgico della macchina da presa di Villeneuve ritrova i maestosi e incandescenti scenari di Arrakis, dominati ancora di più dai toni dell’ocra e delle sue sfumature che sovrastano ogni cosa. La spezia è l’assoluta protagonista, un pulviscolo costantemente presente in scena che ammanta le gigantesche strutture, si riflette nell’aria e vortica veloce sopra la sabbia. La sua influenza è inebriante, tanto per lo spettatore ammaliato dalla poderosa messa in scena di Villeneuve, quanto per i personaggi che solcano le dune del pianeta della spezia, mossi da ambizioni ingigantite dagli effetti della droga. Le numerose pedine che si muovo sulla scacchiera dell’Imperium si ritrovano infine tutte nello stesso luogo, coinvolte o attirate in una resa dei conti in cui ciascuno è mosso dal proprio credo. 

La guerra che a lungo si è mossa sotto la sabbia, come i giganteschi vermi di Dune, è infine esplosa in superfice mostrandosi per ciò che è sempre stata: un guerra di religione, una guerra sacra. Per gli Arkonnen il dio è il denaro, una galassia di denaro, quello perso insieme al feudo su Arrakis e la sua spezia, da riconquistare attraverso il sangue anche grazie a un nuovo campione, Feyd Rutha (Austin Butler). Il nipote del Barone (Stellan Skarsgård) è infatti ambizioso al punto da avere nelle proprie mire il trono dell’Imperatore (Vince Vaughan), a sua volta devoto dell’Impero e della sua sopravvivenza a ogni costo, tradimento incluso. Mentre le Bene Gesserit tendono le loro molte tele per assicurarsi che il destino segua comunque il loro volere, i Fremen si riuniscono intorno a quello che alcuni considerano il messia finalmente giunto, ma la fede di Paul (Timothée Chalamet) è divisa tra le aspirazioni politico-religiose della madre (Rebecca Ferguson), il desiderio di vendetta per lo sterminio della sua stirpe e l’amore per Chani (Zendaya), attraverso cui passa anche la rivalsa di un popolo da sempre oppresso. 

La sceneggiatura di Villeneuve, affiancato nel compito da Jon Spaihts, si districa affilata come un bisturi tra le congiure e le allucinazioni immaginate da Herbert più di mezzo secolo fa, senza timore di riordinarme alcune parti per facilitare la comprensione dei numerosi eventi allo spettatore schiacciato sotto il peso della maestosità della visione. Dune – Parte 2 è un’opera imponente, monumentale, che crea un immaginario collettivo come Star Wars sul finire dei ’70, ma si rifà come modello ai kolossal della golden age di Hollywood: la sequenza dell’atterraggio dell’astronave-città dell’imperatore scuote per solennità e scala, ma nel contempo affoga nel contrasto che attraversa tutto il film, tra la freddezza dello sguardo registico e delle monumentali strutture che sovrastano Arrakis, e il calore delle immagine e della spezia che tutto sferza,  confonde e altera, tra cui si insinua una poderosa colonna sonora che si fa carico spesso della componente emozionale. 

Il dualismo formale e tematico accompagna la pellicola attraverso un gran numero di corali sequenze di azione che conferiscono a questa Parte 2 un ritmo più sostenuto e omogeneo, al punto che di fronte all’ultimo fotogramma le due ore e quaranta di visione sembrano solo una piccola dose di spezia di cui se ne vorrebbe ancora, ancora e ancora. Servirà tempo, probabilmente, per mettere in prospettiva l’impresa cinematografica di Villeneuve che in colpo solo ha sconfitto la maledizione di Dune, ha diretto un cast quasi inconcepibile per star-power (oltre ai già ccitati, mancano Oscar Isaacs, Josh Brolin, Javier Bardem, Dave Bautista e i nuovi ingressi Lea Seydoux e Florence Pugh), ha riportato ancora una volta la fantascienza nell’agenda di Hollywood, ma soprattutto ha restituito all’industria cinematografica americana un’ambizione e un senso di grandeur che nel tempo stava andando un po’ perdendosi lungo il viale del tramonto dei supereroi.  



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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